EPIDERMICA


Indossa il tuo cuore sulla tua pelle in questa vita.
(Sylvia Plath)


La fotografia di Michele Mattiello è una foto del corpo sul corpo, intendendo un ampio margine di senso della corporeità, quindi anche, e soprattutto, quell’indagine psichica che coinvolgendo le profondità emotive fa affiorare sulla pelle le intime tracce del vissuto. In questo caso la lettura epidermica del corpo fotografato ci introduce necessariamente verso la sua magmatica complessità strutturale.
La ricerca di Mattiello, almeno in questa esposizione, muove dalla narrazione del corpo, con particolare attenzione a quanto ha da raccontare il derma: strato superficiale, involucro protettivo, ma anche vaso comunicante tra il dentro e il fuori del corpo.
Con la sua fotografia, l’autore ci fa avvicinare un corpo esperito nelle sue mutevoli dimensioni di relazione: lontananza, vicinanza, assenza
Un corpo di cui Mattiello sigilla, nello scatto, una narrazione parziale, condensata principalmente sul viso, successivamente sul tronco, sul dorso, talvolta sugli arti, mai nella figura umana nella sua interezza. Quasi aderendo al precetto filosofico di una parte per il tutto
Quando il fotografo inquadra il volto, questo risulta scomposto, stravolto dal grido. Un corpo, in questo caso a colori, scosso e turbato dalla potente energia liberata attraverso l’espulsione del grido.
Altrimenti, è un corpo silenzioso e in bianco e nero che si racconta attraverso l’indagine condotta dall’autore sulla pelle dei soggetti ritratti.
Epidermica è infatti il titolo, le fil rouge, che connette (anche questo un tessuto connettivo, dunque) tre diverse sezioni di questa personale.



Nella prima sezione Mattiello propone al pubblico un suo solido lavoro storicizzato, esposto in Italia e all’estero, che segna l’origine, le fondamenta della sua ricerca. “Urlo” raccoglie fotografie - sono tutti pezzi unici - eseguite attraverso il processo di trasferimento di emulsione su carta acquerello.
La stampa a getto d'inchiostro viene immersa in acqua bollente. Nel momento in cui l'emulsione della stampa inizia a scollarsi dal supporto cartaceo, questa viene trasferita su carta acquerello.
L’effetto che se ne ricava è perturbante. Sembra che l’autore abbia sfilato la pelle alla fotografia per appiccicarla sulla tela.
In questo processo la superficie della foto, che va a coincidere con la pelle del soggetto ritratto, tessuto fragile e sottile, va a lacerarsi, creando vere e proprie “ferite” sulla carta
Così come si contrae e si torce, formando strane sovrapposizioni, condensazioni, agglomerati. Una pelle ora raggrumata, ora stracciata. Un corpo collassato su sé stesso, degno erede in pittura sia della scuola di Londra che della figurazione contemporanea
Lasciando la descrizione e la tecnica, le foto in “Urlo” hanno tutte come protagonista dei soggetti ritratti mentre liberano dal corpo il loro personale grido: l’emissione di suoni con voce altissima e alterata.
Mattiello li ritrae mentre espellono un’emozione attraverso la voce dilatata (esperienza che dilata loro l’immagine del sé: la faccia, le narici, la bocca; ingrossa le corde vocali), che in alcuni casi parte dalla pancia, in altri si concentra sui pugni chiusi, per dare ancora più forza all’espulsione.
L’autore ha lavorato sul concetto di vicinanza, condivisione e intimità con i soggetti ritratti, chiedendo ai suoi modelli di urlare. Un atto tanto liberatorio quanto intimo. Anche l’urlo è verità. Dobbiamo raggiungere la profondità segreta, talvolta insondabile del nostro esistere per poter sostenere l’espulsione dei massi erratici di energia emotiva sprofondati in zone oscure e remote della nostra anima: parliamo di lacrime, dolore, sofferenza, frustrazione, vendetta, rabbia.
Un crogiolo di emozioni antiche e potentissime che nell’urlo fuoriescono; Mattiello dà vita a uno scoperchiamento del vaso di Pandora. Dove il vaso è il corpo. Nudo.
La nudità è già difficile, scomoda, perturbante. La nudità è verità senza scampo.
Questo lavoro di Mattiello va inteso in senso ampio, esteso, perché allunga il passo verso la performance, aggancia antichi rituali di purificazione
L’urlo è senz’altro una riuscita prova autoriale a tutto tondo.




Da queste solide basi di ricerca, l’artista decolla verso la sua personale cifra di indagine sul corpo, che realizza, nelle altre due sezioni, come già si diceva nell’introduzione, scegliendo di collocare il corpo nel silenzio metafisico del bianco e nero.
I volti scompaiono. L’identità fisionomica che rintracciavamo nell’urlo qui è demandata in toto alla fisicità. È il che corpo parla. Stavolta non urla, non si apre allo svelamento, piuttosto si raccoglie in preghiera, cerca protezione e vicinanza sodali.
Specchio di un successivo bisogno sia autoriale che sociale.
Come ha interiorizzato il corpo eventi collettivi fatti di distanze, come ha reagito al lockdown, al silenzio del confinamento, al demandare la vita vissuta alla rete e ad una socializzazione virtuale?
Assistiamo ogni giorno a un processo si spersonalizzazione spietata dell’identità più vera e personale, sacrificata ad una ideale identità massificante.
I corpi che troviamo esposti sui social sono massificati esteticamente, non raccontano nulla della loro permanenza sulla terra, della loro vita.
Piuttosto, propongono compulsivamente il loro darsi nell’eternità. Corpi di plastica, perfetti, senza data di scadenza
Eppure, sappiamo bene che non è così. Il nostro stesso corpo ne è testimonianza.
La seconda sezione, titolata “Mutatios Cuti”, titolo che potrebbe essere inteso quasi come un equivalente fisiologico del climate changing, intendendo proprio ere geologiche, sociali e psichiche che si manifestano con veri e propri cambiamenti culturali , i quali producono reali modificazioni sui corpi. In questo caso sulla pelle.
Parliamo dei tatuaggi che ormai sono un fenomeno di massa.
Slacciati da tempo dai significati di iniziazione, oggi ci si tatua qualsiasi cosa.
Il fenomeno è sotto la lente d’ingrandimento di ampia letteratura sociologica e psicanalitica. In questa sezione sono ritratti dei corpi muti, senza voce, che affidano alla parola incisa sulla loro pelle i significanti della loro vita.
Non ci si può solo fermare allo strato epidermico, più superficiale del fenomeno. Questa riscrittura del sé sulla pelle ha il compito di creare connessioni, una sorta di tribù, testimonia la ricerca di una identità collettiva che riesca a ri-coagulare persone attraverso emozioni condivise. La società dell’immagine funziona con il riconoscimento simbolico delle stesse. Vedo una persona con un accessorio griffato e la colloco in un determinato contesto economico. Così per i simboli tatuati sul corpo: vedo una persona tatuata e so che appartiene al mio mondo.
Il processo fotografico scelto da Mattiello per approcciare questa vera e propria muta della pelle, è quello di fotografare più corpi insieme. Non so se l’abbia fatto consapevolmente, ma così facendo è davvero riuscito a descrivere il fenomeno di massa. Senza però nessuna morale aggiunta, anzi: creando una poetica che spinge ancora una volta sulla tenerezza. Mattiello ci fa percepire la solitudine e il bisogno di ritrovare, di ricongiungersi a un proprio simile, individuandolo, attraverso i segni incisi sulla pelle, in quel deserto che è ormai l’umanità.



La terza sezione chiude il cerchio
L’autore propone un’altra sezione di ricerca nel titolo da lui designato in: “L’equazione di Dirac”. Nota come l’equazione dell’amore, in realtà faccenda molto più complessa, con punto d’arrivo quasi agli antipodi. Secondo l’equazione, se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema
Senza entrare nell’oscuro e tempestoso, almeno per me, mare della fisica (in cui mi muovo come naufrago disperato che per di più non sa nuotare), trovo invece interessante approfondire nella lettura delle fotografie il tema principe della ricerca dell’autore, un processo che indaga il corpo e l’uomo attraverso attrazione e repulsione, solitudine e assenza, vicinanza e lontananza.
Anche qui il fotografo si focalizza su soggetti dei quali non inquadra il volto ma soltanto il loro tronco nudo. Anche qui Mattiello gioca sulla torsione del corpo e sulla molteplicità dei soggetti ritratti in un unico scatto
Troviamo un corpo nel quale più mani ne agganciano una porzione, che sia un seno o una coscia. Una moltitudine per definire l’essenza. Un riprendere possesso di questo corpo che è ritratto nella sua verità meravigliosa: peli, nei, pelle raggrinzita.
Vertice di tenerezza, i segni che gli indumenti hanno inciso sulla pelle, quasi come delle cicatrici. Cercando nel corpo trovo tracce del suo abito. Metafora straordinaria per parlare del corpo collocato nell’ambiente, ancora una volta fisico, sociale, provato, ambientale. Qui Mattiello è un vero maestro. Scrutando la pelle dei protagonisti ne immaginiamo vita, provenienza, dolori e gioie
La pelle ci regala preziosi indizi. Seguiamo la sua trama, la pelle è narrazione, come le pagine di un libro ci racconta una storia
Sono anche queste fotografie in bianco e nero. Qui però il corpo non urla, non piange, non esprime solitudine, piuttosto si ritrova, si abbraccia, si ricongiunge agli altri corpi. Ha bisogno di comunicare. Qui i corpi si parlano
L’uomo torna a casa, finalmente si riconcilia.